Scarica il pdf
Il 14 dicembre scorso, il Presidente della terza Commissione consiliare
permanente della Regione Veneto ha inviato al Presidente del Consiglio regionale
il progetto di legge n. 117 recante la “Disciplina dell’esercizio dell’attività
di somministrazione di alimenti e bevande”.
Il ddl non è ancora stato preso in esame dall’aula e, si ritiene, quindi, non
sarà approvato prima della consueta pausa estiva. Non essendo immediata la sua
approvazione c’è tempo ancora per qualche considerazione con la speranza, anche,
di contribuire al perfezionamento della legge che uscirà dall’aula.
Non c’è che dire, è stato fatto un grosso lavoro così come risulta dal complesso
quadro normativo composto da ben 37 articoli. Insomma, una disciplina ben più
corposa della legge statale, la 287 del 1991 che attualmente regola ancora,
nella regione Veneto, un comparto in rapida trasformazione, con soli 12
articoli, norme transitorie e di rinvio comprese.
La Regione invade l’ambito di autonomia dei comuni
Il primo elemento da prendere in considerazione, scorrendo l’articolato e la
relazione di accompagnamento, è la novella dell’art. 117 della Costituzione la
quale individua gli ambiti e i livelli della normazione. A dire il vero,
relativamente agli ambiti che dovrebbero distinguere le attribuzioni statali da
quelli regionali, il confine è ancora una sottile linea che solo la
giurisprudenza della Corte costituzionale potrà definire. Non a caso, proprio la
Regione Veneto ha presentato ricorso di legittimità costituzionale avverso il
d.l. n. 223/2006 (d.l. “Bersani”) cercando di ottenere una definizione alla
materia-non materia della tutela della concorrenza1 che valorizzi
l’apporto delle regioni. Riguardo i livelli della normazione la situazione è più
complessa. In linea di principio, certamente, anche il legislatore statale e
quello regionale può, nell’atto di attribuire le funzioni e dettare le regole di
principio, stabilire anche quelle di dettaglio, specialmente per le parti che
non siano ancora state coperte dalle fonti di autonomia; ma dovrebbe restare
inteso che, qualora l’ordinamento locale intenda dare corpo a principi
innovativi rispetto alla disciplina preesistente, la stessa fonte primaria deve
cedere al sopravvenire dei regolamenti posti in essere dagli stessi enti locali.
L’art. 4 della legge 131 del 2003 traduce ed attua questo impegno costituzionale
riconoscendo l’esistenza di una riserva di competenza in favore del regolamento
comunale; tale potere trova il suo radicamento diretto negli stessi principi
fissati dalla Costituzione2.
Il progetto di legge 117 presentato dalla Giunta regionale sul cui testo si è
espressa la competente commissione consiliare contiene una articolata disciplina
di dettaglio mutuata, per la maggior parte, dalla regolamentazione statale
propria della disciplina in materia commerciale e riconducibile al d.m. 375 del
1988. Insomma, una fonte regolamentare vecchia di vent’anni e, tanto per essere
chiari, antecedente alla legge 241 del 1990, a tutte le leggi di semplificazione
intervenute successivamente e a tutti i regolamenti di semplificazione e di
delegificazione nel frattempo emanati. Fornire ai comuni questa traccia
operativa può rappresentare un freno. Può raffigurare un limite alla opportunità
che, invece, i comuni oggi hanno di utilizzare la fonte regolamentare per
rendere competitivo il proprio territorio introducendo disposizioni atte a
semplificare gli oneri a carico delle imprese e accogliendo in tal modo l’invito
della UE di ridurre del 25 per cento gli oneri burocratici. Per evitare di
condizionare gli enti locali, a tal fine, potrebbe essere utile individuare
specificatamente, all’interno dell’articolato normative del progetto di legge,
le disposizioni cedevoli nei confronti della normazione comunale. Non va
ignorato, infatti, che gli enti locali possono trovarsi impreparati a svolgere
il nuovo ruolo che la Costituzione ha assegnato loro e che dovrà essere formata
una nuova categoria di funzionari, tenuto anche conto che nel progetto per la
qualità della normazione, fino ad oggi, gli enti locali non sono stati
coinvolti. Insomma, specificare quali disposizioni possono essere considerate
cedevoli rispetto la normazione comunale, lungi dall’essere una disposizione
ridondante, potrebbe configurarsi uno stimolo all’esercizio dell’autonomia
normativa.
Solo marginalmente, con riguardo alle disposizioni di dettaglio per l’attività
di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande, va accennato al fatto
che, a suo tempo, proprio la regione Veneto aveva ricorso alla Corte
costituzionale (prima ancora dell’entrata in vigore della modifica al titolo V)
lamentando il fatto che lo Stato aveva cercato di appropriarsi di una competenza
che non gli poteva essere attribuita. Con la sentenza n. 206 del 26 giugno 2001
la Corte aveva concluso che nelle materie diverse da quelle di competenza
propria delle regioni, ma oggetto di conferimenti di funzioni amministrative
alle stesse, "spetta alle Regioni il potere di emanare norme attuative ai sensi
dell’articolo 117, secondo comma, della Costituzione"; e che "in ogni caso, la
disciplina della organizzazione e dello svolgimento delle funzioni e dei compiti
amministrativi conferiti (…) é disposta, secondo le rispettive competenze e
nell’ambito della rispettiva potestà normativa, dalle Regioni e dagli enti
locali".
Una legge che tra due anni dovrà essere modificata
Altra considerazione necessaria, conseguente alla lettura del progetto di
legge, va fatta con riferimento alla direttiva Bolkestein che i Paesi membri
della UE devono recepire nei rispettivi ordinamenti nazionali (e regionali)
entro il 28 dicembre 2009 e, quindi, al massimo entro due anni e mezzo. Secondo
il parere della Commissione Europea, che già nel luglio 2002 presentò una
relazione sullo stato del mercato interno dei servizi, l’integrazione del
mercato interno in questo ambito è ben lontana dallo sfruttare in pieno le
potenzialità di crescita economica che la UE doveva prefigurare. La direttiva
Bolkestein che ne è scaturita ha quindi come obiettivo quello di facilitare la
circolazione di servizi all’interno dell’Unione Europea, perché i servizi
rappresentano il 70% dell’occupazione in Europa, e la loro liberalizzazione, a
detta di numerosi economisti, aumenterebbe l’occupazione ed il PIL dell’Unione
Europea. La direttiva, in base al testo emendato, è stata approvata dal
Parlamento e dal Consiglio dell'Unione Europea il 12 dicembre 2006. La direttiva
2006/123/CE, tuttavia, non disciplina nello specifico l’ampio settore dei
servizi, in cui rientra il commercio, ma si propone come un direttiva- quadro,
che pone poche regole molto generali e lascia agli stati membri la decisione su
come meglio applicare i principi da essa enunciati. Essendo la disciplina per le
attività economiche di competenza regionale, è evidente che dovranno essere le
regioni a darvi attuazione. Le leggi e i decreti legge in materia di
competitività che nei tempi più recenti sono stati promulgati dallo Stato, del
resto, anticipano l’attuazione a queste direttive ma sta alle regioni, alla fin
fine, adeguare il proprio ordinamento agli indirizzi che la UE ha stabilito.
Due binari che potrebbero riunirsi in un unico tracciato
Un’ulteriore questione da esaminare è quella che riguarda la polizia
amministrativa in cui le regioni hanno oggi competenza esclusiva, essendo
espressamente esclusa dalle materie la cui legislazione è affidata allo Stato,
così come risulta dal comma secondo, lettera h) dell’articolo 117 Cost. Nel
progetto di legge della Regione Veneto, così come sottolineato nella relazione
di accompagnamento, è disciplinata l’attività di somministrazione al pubblico di
alimenti e bevande e viene abbandonato l’equivoco termine di esercizio pubblico
la cui disciplina è riconducibile al testo unico di pubblica sicurezza. Si vuole
in tal modo chiarire, è precisato nella relazione di accompagnamento del
progetto di legge, che la finalità perseguita è quella di dettare una disciplina
uniforme per tutto il settore della somministrazione, indipendentemente dal
fatto che tale attività venga esercitata in locali aperti al pubblico o nei
confronti di una clientela ben determinata. Ottima scelta, quella del
legislatore regionale, di dettare una disciplina organica per un comparto in
evoluzione ma, ciò che andava anche fatto, era/è di chiarire in che modo la
disciplina per l’attività di somministrazione si concilia con quella in materia
di polizia amministrativa, tuttora disciplinata dal t.u.l.p.s. anche se, dopo la
novella dell’art. 117, rientrante nell’ambito di competenza delle regioni. La
questione non è di poco conto anche se, ad onor del vero, nessuna delle regioni
che fino ad ora hanno normato il comparto della somministrazione, si sono
cimentate a mettere ordine nel settore, coordinando le due discipline. In
pratica, tutte le regioni hanno ignorato il fatto che il d.p.r. 311/2001 ha
ratificato quanto il Consiglio di Stato aveva chiaramente rilevato nel parere n.
123/96 espresso nell'adunanza generale del 25 luglio 1996 sullo schema di
regolamento alla legge 287 del 1991, ovvero che per l’attività di
somministrazione al pubblico di alimenti e bevande doveva continuare ad
applicarsi la disciplina del t.u.l.p.s. oltre alla legge 287 del 1991. Un doppio
binario, quindi, che le regioni, oggi, potrebbero, o meglio ancora dovrebbero,
riunire in unico tracciato.
L’esercizio della discrezionalità.
E’ opportuno sottolineare, relativamente ai requisiti per l’esercizio delle
attività, che gli stessi saranno definiti dalla nuova legge, ma rimangono
tuttora applicabili anche quelli fissati dagli articoli 11 e 923 del
testo unico. In particolare, il comma secondo dell’art. 11 prevede alcune
ipotesi di condanne per reato, che demandano, o demanderebbero, all’autorità
competente (nella fattispecie il Comune) la discrezionalità se concedere o meno
la licenza. La disposizione di cui all’art. 11, comma secondo, del t.u.l.p.s.,
infatti, nel precedere l’elencazione delle ipotesi di condanna per i reati,
esplica che in tali circostanze “le autorizzazioni di polizia possono essere
negate”. La locuzione “possono” denota l’esercizio di discrezionalità. E’
superfluo rilevare che un procedimento caratterizzato da elementi di
discrezionalità non può essere sottoposto a denuncia di inizio attività come
invece è previsto nel progetto di legge della Regione Veneto, a meno che i
procedimenti non si sdoppino senza tenere conto di quanto ha disposto il d.p.r.
311/2001 che, invece, li ha voluti unificare. Allo stato attuale, comunque,
nessuna regione si è interrogata sulle problematiche connesse alla duplicazione
dei procedimenti di natura commerciale e di polizia amministrativa e alla
connotazione che il procedimento previsto dal testo unico di pubblica sicurezza
(rectius polizia amministrativa) deve avere in relazione al fatto che i due
presuppongono requisiti di onorabilità non sovrapponibili e che uno dei due non
consente l’applicabilità dell’istituto della dichiarazione di inizio attività in
luogo dell’autorizzazione.
Non sciogliere questi nodi significa lasciare i Comuni in un limbo, soprattutto
per un comparto in rapida trasformazione che, tra l’altro, soffre della
concorrenza delle imprese artigiane, che senza gli oneri ai quali sono
sottoposti i cosiddetti pubblici esercizi, in nulla ormai si differenziano.
____________________________________________________________________________
1 Il ricorso della regione
Veneto è stato pubblicato sulla G.U. n. 40 del 4 ottobre 2006
2 L’articolo 4, commi 4 e 6 della l. 131 del 2003, dispongono
rispettivamente che: “4. La disciplina dell’organizzazione, dello svolgimento e
della gestione delle funzioni dei Comuni, delle Province e delle Città
metropolitane è riservata alla potestà regolamentare dell’ente locale,
nell’ambito della legislazione dello Stato o della Regione, che ne assicura i
requisiti minimi di uniformità, secondo le rispettive competenze, conformemente
a quanto previsto dagli articoli 114, 117, sesto comma, e 118 della
Costituzione.
3 Cfr art. 11 t.u.l.p.s. Salve le condizioni particolari stabilite
dalla legge nei singoli casi, le autorizzazioni di polizia debbono essere
negate:
a chi ha riportato una condanna a pena restrittiva della libertà personale
superiore a tre anni per delitto non colposo e non ha ottenuto la
riabilitazione;
a chi è sottoposto all'ammonizione o a misura di sicurezza personale o è stato
dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza.
Le autorizzazioni di polizia possono essere negate a chi ha riportato condanna
per delitti contro la personalità dello Stato o contro l'ordine pubblico, ovvero
per delitti contro le persone commessi con violenza, o per furto, rapina,
estorsione, sequestro di persona a scopo di rapina o di estorsione, o per
violenza o resistenza all'autorità, e a chi non può provare la sua buona
condotta.
Le autorizzazioni devono essere revocate quando nella persona autorizzata
vengono a mancare, in tutto o in parte, le condizioni alle quali sono
subordinate, e possono essere revocate quando sopraggiungono o vengono a
risultare circostanze che avrebbero imposto o consentito il diniego della
autorizzazione.
Art. 92 t.u.l.p.s.
Oltre a quanto è preveduto dall'art. 11, la licenza di esercizio pubblico e
l'autorizzazione di cui all'art. 89 non possono essere date a chi sia stato
condannato per reati contro la moralità pubblica e il buon costume, o contro la
sanità pubblica o per giuochi d'azzardo, o per delitti commessi in istato di
ubriachezza o per contravvenzioni concernenti la prevenzione dell'alcoolismo, o
per infrazioni alla legge sul lotto, o per abuso di sostanze stupefacenti.