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In occasione della XXIV Assemblea Annuale ANCI che si è svolta
a Bari dal 20 al 22 giugno 2007 è stato elaborato e reso pubblico il “Vademecum
sull’applicazione della disciplina in materia di vendita diretta dei prodotti
agricoli” Si tratta di un utile documento che contribuisce, senz’altro, a fare
chiarezza su diversi aspetti tra i quali le problematiche fiscali conseguenti
alle diverse tipologie che possono essere commercializzate. L’occasione, risulta
utile per approfondire alcune questioni che l’ANCI non ha preso in
considerazione e che investono, tuttavia, problematiche non trascurabili per il
loro impatto nella disciplina del comparto.
Il commercio esercitato dai produttori agricoli
Una delle disposizioni di maggior impatto all’uscita del
decreto legislativo 228 del 2001, fu il comma 8 dell’articolo 4, il quale
prevedeva che:
“Qualora l'ammontare dei ricavi derivanti dalla vendita dei prodotti non
provenienti dalle rispettive aziende nell'anno solare precedente sia superiore a
lire 80 milioni per gli imprenditori individuali ovvero a lire 2 miliardi per le
società, si applicano le disposizioni del citato decreto legislativo n. 114 del
1998.”
Questi importi limite di 80 milioni e di 2 miliardi sono stati
successivamente aumentati e portati rispettivamente a 160 mila euro per le
imprese individuali e 4 milioni di euro per le società. L’incremento è stato
disposto dal comma 1064 dell'articolo 1 della legge. 27 dicembre 2006, n. 296.
Si è a lungo discusso se in questo importo massimo consentito per l’acquisto di
prodotti da terzi fossero da intendersi soltanto altri prodotti agricoli o anche
prodotti complementari ma non agricoli. Per cercare di esemplificare, l’esempio
più calzante può essere il portavaso o la guida per la coltivazione delle
orchidee posta in vendita dal vivaista, il tagliere con il logo aziendale dal
produttore di formaggi o di salumi, o il set da sommelier da acquistare in
occasione della visita alla cantina. Le opinioni, a tale proposito, sono state
contrastanti ma si buon ben dire che tra breve ogni possibile contrapposizione
sarà destinata a scomparire con l’approvazione del disegno di legge 2272 bis bis
che, licenziato dalla Camera il 13 giugno, sarà presumibilmente approvato entro
l’anno.
Il comma 1 dell’articolo 1 dopo una premessa ridondante del principio di
concorrenza dispone che “non possono essere poste limitazioni alla possibilità
di abbinare nello stesso locale o nella stessa area la vendita di prodotti e di
servizi complementari e accessori rispetto a quella principale o originaria, (
….) nonché la distinzione fra settore merceologico alimentare e non alimentare”.
Una disposizione un po’ vaga questa ma che certamente si presta alle più ampie
interpretazioni. Una possibile soluzione interpretativa circa la possibilità di
abbinare nello stesso locale l’attività di vendita e servizi potrebbe essere
quella che con le nuove norme sarà possibile per il ciabattino vendere i lacci
per scarpe, l’estetista la vendita di cosmetici, l’acconciatore potrà vendere
pettini, spazzole e accessori vari. E l’elenco potrebbe continuare.
Se, quindi, da quasi dieci anni sono stati definitivamente archiviati i piani
commerciali che hanno frenato lo sviluppo del comparto ed oggi si può aprire un
esercizio di vendita senza particolari formalità, diventa difficile negare agli
imprenditori, siano essi piccoli o medi, e quindi perché no a quelli agricoli,
la possibilità di affiancare all’attività principale altre funzioni nel rispetto
inscindibile delle norme urbanistiche e igienico sanitarie, senza porre loro
inusitati vincoli.
Non è superfluo, sotto questo punto di vista ricordare che fin dall’estate
scorsa sono state introdotte nell’ordinamento giuridico diverse disposizioni che
hanno favorito o, meglio ancora, incentivato la libertà dell’iniziativa
economica e il Governo, sulla base degli indirizzi comunitari si è impegnato a
ridurre gli oneri a carico delle imprese.
Il disegno di legge 2272 bis bis è nato dallo stralcio del disegno di legge
presentato alla Camera dal Governo, il 16 febbraio scorso. Il progetto di legge
“Misure per il cittadino consumatore e per agevolare le attività produttive e
commerciali, nonché interventi in settori di rilevanza nazionale” era nato
contemporaneamente al decreto-legge 31 gennaio 2007, n.7 misure urgenti per la
tutela dei consumatori, la promozione della concorrenza, lo sviluppo di attività
economiche e la nascita di nuove imprese" che, pubblicato nella gazzetta
ufficiale n. 26 dell’ 1 febbraio 2007, ne doveva rappresentare il naturale
completamento coinvolgendo il Parlamento in un dibattito su materie e scelte in
cui era, o si riteneva necessario costruire il più ampio consenso.
Il sistema autorizzatorio
Dall’inizio degli anni 90 con la positivizzazione del diritto
amministrativo sono stati rivoluzionati i rapporti tra cittadino e pubblica
amministrazione. Silenzio assenso e denuncia di inizio attività hanno sradicato
il sistema autorizzatorio che aveva, da tempo, caratterizzato l’attività della
PA in attuazione di un presunto interesse pubblico che limitava l’iniziativa
economica sancita dall’articolo 41 della nostra carta costituzionale. Il sistema
della comunicazione che legittima oggi l’apertura dell’esercizio di vicinato ma
anche la vendita dei prodotti agricoli si inserisce nella evoluzione
procedimentale per delle particolarità che sono state efficacemente analizzate
dal Ministero dello sviluppo economico in una risoluzione del 21 dicembre 20061
che risulta oltremodo utile riproporre proprio per la completezza delle
argomentazioni che sono state utilizzate per qualificare, con precisione, l’iter
procedurale.
“Omissis ……………….. Nello specifico, si richiama,
innanzitutto, l’articolo 4 del decreto, il quale al comma 1 stabilisce
che “gli imprenditori agricoli, singoli o associai, iscritti nel registro delle
imprese di cui all'art. 8 della legge 29 dicembre 1993, n. 580, possono vendere
al dettaglio, in tutto il territorio della Repubblica, i prodotti provenienti in
misura prevalente dalla rispettive aziende, osservate le disposizioni vigenti in
materia di igiene e sanità”; al comma 7 sancisce che “Alla vendita
diretta disciplinata dal presente decreto continuano a non applicasi le
disposizioni di cui al decreto legislativo 31 marzo1998, n. 114“; al comma 8,
prevede che “Qualora l’ammontare dei ricavi derivanti dalla vendita dei prodotti
non provenienti dalle rispettive aziende nell’anno solare precedente sia
superiore a lire 80 milioni per gli imprenditori invidividuali ovvero a lire 2
miliardi per la società2, si applicano le disposizioni del citato
decreto legislativo 114 del 1998”.
Relativamente alle possibili modalità di vendita, l’art. 4, comma 2 del decreto
stabilisce che le
aziende agricole che intendano effettuare la vendita diretta dei prodotti
agricoli in forma itinerante
devono darne comunicazione al Comune del luogo ove ha sede l’azienda di
produzione e possono
effettuarla decorsi trenta giorni dal ricevimento della comunicazione.
Il successivo art. 4, comma 3, stabilisce, inoltre, che la predetta
comunicazione, “…oltre alle indicazioni delle generalità del richiedente,
dell'iscrizione nel registro delle imprese e degli estremi di ubicazione
dell'azienda, deve contenere la specificazione dei prodotti di cui s'intende
praticare la vendita e delle modalità con cui si intende effettuarla, ivi
compreso il commercio elettronico…”.
Pertanto, in sintesi, per effetto delle richiamate disposizioni l’attività di
vendita dei produttori agricoli in forma itinerante su area pubblica è soggetta
a comunicazione, integrata con le indicazioni, previste dal su citato comma 3,
ed indirizzata al Comune ove ha sede l’azienda, la cui attività di vendita può
essere avviata decorsi trenta giorni dal ricevimento della predetta
comunicazione.
Con riferimento al citato art. 4, comma 2, c’è da rilevare che l’art.
2–quinquies della Legge 11 marzo 2006, n. 81 ha modificato il predetto comma 2,
stabilendo che “… Per la vendita al dettaglio esercitata su superfici all'aperto
nell'ambito dell'azienda agricola o di altre aree private di cui gli
imprenditori agricoli abbiano la disponibilità non è richiesta la comunicazione
di inizio attività”.
Nella fattispecie in cui non si tratti di vendita in forma itinerante, occorre
fare riferimento al comma 4 dell’art. 4 del decreto che recita: “Qualora
si intenda esercitare la vendita al dettaglio non in forma itinerante su aree
pubbliche o in locali aperti al pubblico, la comunicazione è indirizzata al
sindaco del comune in cui si intende esercitare la vendita. Per la vendita al
dettaglio su aree pubbliche mediante l’utilizzo di un posteggio la comunicazione
deve contenere la richiesta di assegnazione del posteggio medesimo, ai sensi
dell’art. 28 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114”.
Il predetto comma 4, quindi, si limita a sancire che, in caso di vendita al
dettaglio, non in forma itinerante su aree pubbliche (ossia nel caso di vendita
su aree pubbliche mediante l’utilizzo di un posteggio), occorre indirizzare la
comunicazione al Sindaco del comune in cui si intende esercitare la vendita e
che la comunicazione deve contenere la richiesta di assegnazione del posteggio
medesimo, ai sensi dell'art. 28 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114.
In conseguenza delle richiamate disposizioni, dall’entrata in vigore del decreto
n. 228/2001, come modificato dalla citata legge n. 81 del 2006, i produttori
agricoli, singoli od associati, iscritti nel registro delle imprese, possono
vendere i prodotti provenienti in misura prevalente dalle rispettive aziende,
con le seguenti modalità:
• su aree pubbliche, in forma itinerante;
• su aree pubbliche, mediante l’utilizzo di un posteggio;
• su aree private, ma in locali aperti al pubblico;
• su superfici all’aperto nell’ambito dell’azienda agricola o direttamente su
aree private.
Con riferimento a quanto sopra, la scrivente ritiene che la
comunicazione, ripetutamente richiamata nelle disposizioni del decreto n. 228, è
un istituto diverso dalla dichiarazione di inizio di attività di cui alla legge
n. 241 del 1990.
Al riguardo, si richiama l’attenzione sulla nuova formulazione del predetto art.
19, modificato dall’art. 1 (con le modalità e i termini di cui al successivo
art. 2) della legge n. 80 del 2005, che sostituisce la denuncia di inizio con
una “dichiarazione di inizio attività” ed in base alla quale:
“1. ogni atto di autorizzazione, licenza, concessione non costitutiva, permesso
o nulla osta comunque denominato, comprese le domande per le iscrizioni in albi
o ruoli richieste per l'esercizio di attività imprenditoriale, commerciale o
artigianale il cui rilascio dipenda esclusivamente dall'accertamento dei
requisiti e presupposti di legge o di atti amministrativi a contenuto generale e
non sia previsto alcun limite o contingente complessivo o specifici strumenti di
programmazione settoriale per il rilascio degli atti stessi, (…) è sostituito da
una dichiarazione dell'interessato corredata, anche per mezzo di
autocertificazioni, delle certificazioni e delle attestazioni normativamente
richieste. L'amministrazione competente può richiedere informazioni o
certificazioni relative a fatti, stati o qualità soltanto qualora non siano
attestati in documenti già in possesso dell'amministrazione stessa o non siano
direttamente acquisibili presso altre pubbliche amministrazioni.
2. L'attività oggetto della dichiarazione può essere iniziata decorsi trenta
giorni dalla data di presentazione della dichiarazione all'amministrazione
competente. Contestualmente all'inizio dell'attività, l'interessato ne dà
comunicazione all'amministrazione competente”.
In caso di presentazione di dichiarazione di inizio di attività, quindi, ad
avviso della scrivente, occorre obbligatoriamente il decorso dei 30 giorni, onde
consentire agli organi preposti di operare le opportune verifiche.
Nelle richiamate disposizioni del decreto legislativo n. 228, invece, non vi
è cenno al decorso del termine, nel caso di avvio di attività in locali aperti
al pubblico.
……… Omissis”
L’aver chiarito, e la lettura delle disposizioni citate non
può che portare a condividere questa interpretazione, che la comunicazione è
immediatamente efficace contribuisce alla formazione di quella cultura della
semplificazione che Governo e Parlamento hanno intrapreso sul percorso tracciato
dall’OCSE.
I requisiti oggettivi dei locali
Una delle questioni che, trattando la disciplina delle
attività economiche, più frequentemente emergono, è quella che riguarda i
requisiti oggettivi dei locali. Le indicazioni che, spesse volte sono (in tutta
buona fede) fornite agli operatori sono le più varie: si va dal certificato di
prevenzione incendi, alla conformità della destinazione d’uso, all’altezza e
dimensione minima de locali. Eppure, ormai, una cosa dovrebbe essere acquisita:
non è possibile richiedere la dimostrazione del possesso dei requisiti oggettivi
(né effettuare alcuna verifica) se la disciplina di riferimento non richiede
alcunchè. L’articolo 4 del decreto 228 del 2001 che, alla data attuale, fornisce
le indicazioni procedimentali, al comma 1 prevede che: Gli imprenditori
agricoli, singoli o associati, iscritti nel registro delle imprese di cui
all'art. 8 della legge 29 dicembre 1993, n. 580, possono vendere direttamente al
dettaglio, in tutto il territorio della Repubblica, i prodotti provenienti in
misura prevalente dalle rispettive aziende, osservate le disposizioni vigenti in
materia di igiene e sanità.
Come appare evidente dalla lettura di questa disposizione, è soltanto il
rispetto dei requisiti igienico-sanitari che deve essere assicurato
dall’imprenditore che, tra l’altro, dopo l’entrata in vigore del nuovo pacchetto
igiene CE è tenuto ad adempiere agli stessi oneri delle altre imprese
produttrici di generi alimentari. Relativamente alla inesistenza di norme che
impongano il rispetto di norme tecniche si è espresso anche il Tar Puglia in una
delle poche sentenze emesse dopo l’entrata in vigore delle nuove disposizioni
contenute nel decreto legislativo 228 del 2001.
L’articolato (del decreto 228 del 2001) - rileva il Tar Puglia, sezione di Bari,
nella sentenza 5211 del l’11 novembre 2004 - (così come, peraltro, l'intero
testo del decreto 228/01) non impone affatto il possesso di requisiti oggettivi
(conformità dei locali alle norme regolamentari edilizie ed alle destinazioni
d'uso di zona) per l'esercizio del relativo commercio. Il decreto, precisa il
Tar Puglia, coerente con la sua ratio di favorire lo sviluppo del settore
agricolo in tutte le sue potenzialità economico-sociali, oblitera ogni vincolo
di natura urbanistica di guisa che i locali destinati all'attività di vendita
scontano unicamente la verifica di idoneità igienico sanitaria.
Le sanzioni
A che tipo di sanzioni sono sottoposti i produttori che
esercitano l’attività commerciale senza essere in possesso della prescritta
autorizzazione o comunicazione è questione che sarebbe da approfondire, tenuto
conto che né la legge 59 del 1963 né il decreto legislativo 228 del 2001 nulla
dicono a proposito, ovvero nella relativa disciplina non esiste la previsione di
alcuna sanzione. La questione, tuttavia, è stata presa in esame dalla Cassazione
civile con sentenza n. 7240 del 7 agosto 1996, che si ritiene utile riprodurre
integralmente, al fine della completa conoscenza delle argomentazioni
sviluppate.
“1. La Cooperativa produttori del latte di
xxxxx, con ricorso 3 aprile 1991 propose opposizione avverso
l'ordinanza-ingiunzione dell'U.P.I.C.A. di Ascoli Piceno notificatole l'11 marzo
1991, con la quale le era stata comminata una sanzione amministrativa di Lit.
900.000 per violazione dell'art. 24 della L. 11 giugno 1971, n. 426 accertata in
data 5 ottobre 1990, in relazione all'esercizio di vendita al pubblico al minuto
senza la prescritta autorizzazione.
L'opponente deduceva di essere in possesso di autorizzazione
sanitaria del 31 maggio 1990, di avere richiesto l'autorizzazione di vendita al
minuto il 26 febbraio 1990 e di averla ottenuta il 15 ottobre 1990.
Deduceva di avere supposto un provvedimento di silenzio
assenso ex art. 4 della legge 9 febbraio 1963, n. 59 e che, comunque, l'art. 45
della legge 11 giugno 1971, n. 426 esclude la necessità dell'autorizzazione per
i titolari di imprese agricole, singoli o associati, i quali esercitino attività
di alienazione dei prodotti agricoli nei limiti di cui all'art. 2135 cod. civ.,
alla legge n. 125 del 1959 e alla legge n. 59 del 1963.
L'U.P.I.C.A. si costituiva chiedendo il rigetto
dell'opposizione. Il Pretore di Ascoli Piceno, in parziale accoglimento
dell'opposizione, riduceva la sanzione a Lit. 500.000, compensando le spese.
La Cooperativa ha proposto ricorso per cassazione formulando
tre motivi. L'U.P.I.C.A. di Ascoli Piceno resiste con controricorso.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo si deduce "violazione dell'art. 360,
n. 5 c.p.c. per insufficiente e contraddittoria motivazione sul punto decisivo
della norma da applicare".
Si lamenta in particolare che il pretore abbia
apoditticamente affermato che l'autorizzazione del sindaco è sempre prescritta
in base alle leggi n. 59 del 1967, n. 477 del 1964, n. 976 del 1965 e n. 426 del
1971, pur riconoscendo che tali norme non sono di facile interpretazione.
Con il secondo motivo si lamenta la violazione dell'art. 1
della legge n. 59 del 1963, dell'articolo unico della legge 14 giugno 1964, n.
477, dell'art. 2135 c.c., dell'art. 206 del D.P.R. n. 1124 del 1965 e dell'art.
45 della legge 11 giugno 1971, n. 426, che esentano i titolari di aziende
agricole, che esercitino attività di alienazione dei prodotti agricoli,
dall'obbligo di fornirsi dell'apposita autorizzazione comunale.
Con il terzo motivo si deduce la violazione degli artt. 1, 4
e 5 della legge n. 59 del 1963, in quanto secondo tali disposizioni trascorsi 15
giorni dalla richiesta della licenza senza rigetto della richiesta, doveva
ritenersi intervenuto il silenzio-assenso.
2. Il primo motivo è inammissibile, giacché con esso si
censura, in riferimento all'art. 360, n. 5 c.p.c. una asserita carenza di
motivazione in diritto, mentre ai sensi dell'art. 360 n. 5 i vizi motivazioni
deducibili con il ricorso per cassazione sono unicamente quelli riguardanti gli
accertamenti di fatto compiuti dal giudice di merito, essendo, invece,
censurabili i vizi motivazionali relativi alle norme di diritto applicate sotto
il profilo della violazione o falsa applicazione di norme di legge, ex art. 360,
n. 3 c.p.c.
Fondato è invece il secondo motivo di ricorso, con il quale
si adducono violazioni di legge, sostanzialmente sotto il profilo che la
ricorrente, essendo una Cooperativa di produttori del latte, ai sensi della
legge 9 febbraio 1963, n. 59 e dell'art. 45 della legge 11 giugno 1971, n. 426,
poteva vendere al minuto, in quanto associazione di produttori, i prodotti
agricoli degli associati senza l'autorizzazione amministrativa prevista dagli
artt. 24 e segg. della legge n. 426 del 1971.
In proposito va osservato che, a norma della legge 9 febbraio
1963, n. 59, i produttori agricoli, singoli o associati, hanno diritto ad
ottenere, secondo le modalità previste da tale legge, l'autorizzazione a
vendere, in tutto il territorio della Repubblica, i prodotti ottenuti nei propri
fondi per coltura o allevamento, al di fuori delle regole stabilite in tema di
autorizzazione al commercio al minuto della legge n. 426 del 1971 la quale,
all'art. 45, espressamente dispone che essa non si applica ai "titolari
d'imprese agricole, singole o associate, i quali esercitino attività di
alienazione dei prodotti agricoli nei limiti di cui all'art. 2135 c.c., alla
legge 25 marzo 1959, n. 124 ed alla legge 9 febbraio 1963, n. 59".
Erroneamente, pertanto, essendo l'opponente una cooperativa
fra produttori del latte, la sentenza impugnata ha ritenuto che essa doveva
munirsi, per la vendita dei prodotti dei suoi associati, della licenza di cui
all'art. 24 della legge n. 426 del 1971, dovendo essa munirsi unicamente
dell'autorizzazione prevista dalla legge n. 59 del 1963, con la conseguenza che
non poteva esserle applicata la sanzione di cui all'art. 39 della legge n. 426
del 1971, prevista per la violazione dell'art. 24 di tale stessa legge e non
anche per la mancanza dell'autorizzazione prescritta dalla legge n. 59 del 1963.
Ne deriva che il ricorso va accolto in relazione al secondo
motivo, con assorbimento del terzo e, sussistendo le condizioni per pronunciare
nel merito ex art. 384 c.p.c., in accoglimento dell'opposizione,
l'ordinanza-ingiunzione opposta va annullata poiché nel caso di specie - per
quanto sopra detto - non poteva irrogarsi la sanzione amministrativa prevista
dall'art. 39 della legge n. 426 del 1971.
Sussistono giusti motivi per compensare le spese dell'intero
giudizio.
P.Q.M.
La Corte di Cassazione dichiara inammissibile il primo
motivo. Accoglie il secondo. Dichiara assorbito
il terzo. Decidendo nel merito annulla l'ordinanza-ingiunzione opposta. Dichiara
compensate le spese
dell'intero giudizio.
Così deciso in Roma l'11 marzo 1996.”
Per la logica giuridica, alla violazione di una disposizione
dovrebbe corrispondere la determinazione di una sanzione. Ma è il legislatore a
deciderlo. E il legislatore nazionale con la legge 426 del 1971 e
successivamente con il decreto legislativo 112 del 1998 ha disposto che la legge
sul commercio si applica soltanto per quanto riguarda la procedura per la
concessione dei posteggi per l’esercizio del commercio sulle aree pubbliche
mentre espressamente, l’articolo 4, comma 2 del decreto 114 del 1998 dispone che
la medesima legge non si applica:
“d) ai produttori agricoli, singoli o associati, i quali
esercitino attività di vendita di prodotti agricoli nei limiti di cui
all'articolo 2135 del codice civile, alla legge 25 marzo 1959, n. 125, e
successive modificazioni, e alla legge 9 febbraio 1963, n. 59, e successive
modificazioni.”
L’esclusione indicata alla lettera d) dall’ambito di
applicazione del d.lgs 114/1998 e la specificazione di quali sono i relativi
limiti merita un approfondimento. E’ ben noto, infatti, che l’analogia nel
sistema sanzionatorio non è permessa e, di conseguenza, va approfondita una
interpretazione da alcuni sostenuta che dovrebbe far scaturire l’ assioma: manca
l’autorizzazione ex legge 59/1963 o 22/2001, l’attività va sanzionata in base
sulla legge del commercio.
Questa tesi non può essere condivisa, per un insieme di motivi:
a) Innanzitutto va evidenziato che la legge sul commercio disciplina il
commercio e non l’attività di vendita. Per gli operatori del settore questa
distinzione non è da poco ed è ben chiara agli operatori del settore. Infatti,
l’articolo 4 del decreto 114 del 1998 ne dà, puntualmente” la definizione in “per
commercio al dettaglio, (si intende) l'attività' svolta da chiunque
professionalmente acquista merci in nome e per conto proprio e le rivende, su
aree private in sede fissa o mediante altre forme di distribuzione, direttamente
al consumatore finale. Tale attività può assumere la forma di commercio interno,
di importazione o di esportazione".
b) E’ pur vero che la normativa sul commercio disciplina ipotesi di vendita,
(non rientranti nella definizione di commercio) ma esiste, al riguardo, una
specifica disposizione. Non c’è in pratica, alcuna applicazione analogica.
Esiste, quindi, un modo “razionale” per interpretare quel riferimento, ovvero,
quei limiti al codice civile e alla disciplina per la vendita dei prodotti
agricoli contenuto nel decreto legislativo 114 del 1998? A giudizio di chi
scrive esiste: e sono i limiti soggettivi e oggettivi che la disciplina stessa
individua. In pratica, solo qualora i produttori violassero questi limiti che
“qualificano” l’attività agricola rientrerebbero nella disciplina dell’attività
commerciale e, di conseguenza il mancato possesso della autorizzazione prevista
per tale attività potrebbe essere contestato.
In sostanza, tra i produttori e i commercianti non è presupposta l’appartenenza
allo stesso genere che, invece, esiste tra i commercianti su aree private,
quelli su aree pubbliche e quelli all’ingrosso. Non risulta, di conseguenza,
possibile sanzionare l’esercizio dell’attività di vendita esercitata da un
produttore sprovvisto dell’autorizzazione ai sensi dell’art. 4 del d.lgs
228/2001 con la medesima sanzione che punisce il commerciante che esercita
l’attività non legittimato in base ai diversi procedimenti disciplinati dal
decreto 114 del 1998.
20 luglio 2007
____________________________________
1. La risoluzione prot. n. 00111398 è pubblicata nel
sito del Ministero all’indirizzo http://www.sviluppoeconomico.gov.it aree
tematiche – commercio, sottosezione risposte a quesiti.
2. Questi importi limite di 80 milioni e di 2 miliardi sono stati
successivamente aumentati e portati
rispettivamente a 160 mila euro per le imprese individuali e 4 milioni di euro
per le società. L’incremento è
stato disposto dal comma 1064 dell'articolo 1 della legge. 27 dicembre 2006, n.
296.