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La vendita dei prodotti agricoli
 

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In occasione della XXIV Assemblea Annuale ANCI che si è svolta a Bari dal 20 al 22 giugno 2007 è stato elaborato e reso pubblico il “Vademecum sull’applicazione della disciplina in materia di vendita diretta dei prodotti agricoli” Si tratta di un utile documento che contribuisce, senz’altro, a fare chiarezza su diversi aspetti tra i quali le problematiche fiscali conseguenti alle diverse tipologie che possono essere commercializzate. L’occasione, risulta utile per approfondire alcune questioni che l’ANCI non ha preso in considerazione e che investono, tuttavia, problematiche non trascurabili per il loro impatto nella disciplina del comparto.

Il commercio esercitato dai produttori agricoli

Una delle disposizioni di maggior impatto all’uscita del decreto legislativo 228 del 2001, fu il comma 8 dell’articolo 4, il quale prevedeva che:
“Qualora l'ammontare dei ricavi derivanti dalla vendita dei prodotti non provenienti dalle rispettive aziende nell'anno solare precedente sia superiore a lire 80 milioni per gli imprenditori individuali ovvero a lire 2 miliardi per le società, si applicano le disposizioni del citato decreto legislativo n. 114 del 1998.”
Questi importi limite di 80 milioni e di 2 miliardi sono stati successivamente aumentati e portati rispettivamente a 160 mila euro per le imprese individuali e 4 milioni di euro per le società. L’incremento è stato disposto dal comma 1064 dell'articolo 1 della legge. 27 dicembre 2006, n. 296. Si è a lungo discusso se in questo importo massimo consentito per l’acquisto di prodotti da terzi fossero da intendersi soltanto altri prodotti agricoli o anche prodotti complementari ma non agricoli. Per cercare di esemplificare, l’esempio più calzante può essere il portavaso o la guida per la coltivazione delle orchidee posta in vendita dal vivaista, il tagliere con il logo aziendale dal produttore di formaggi o di salumi, o il set da sommelier da acquistare in occasione della visita alla cantina. Le opinioni, a tale proposito, sono state contrastanti ma si buon ben dire che tra breve ogni possibile contrapposizione sarà destinata a scomparire con l’approvazione del disegno di legge 2272 bis bis che, licenziato dalla Camera il 13 giugno, sarà presumibilmente approvato entro l’anno.
Il comma 1 dell’articolo 1 dopo una premessa ridondante del principio di concorrenza dispone che “non possono essere poste limitazioni alla possibilità di abbinare nello stesso locale o nella stessa area la vendita di prodotti e di servizi complementari e accessori rispetto a quella principale o originaria, ( ….) nonché la distinzione fra settore merceologico alimentare e non alimentare”. Una disposizione un po’ vaga questa ma che certamente si presta alle più ampie interpretazioni. Una possibile soluzione interpretativa circa la possibilità di abbinare nello stesso locale l’attività di vendita e servizi potrebbe essere quella che con le nuove norme sarà possibile per il ciabattino vendere i lacci per scarpe, l’estetista la vendita di cosmetici, l’acconciatore potrà vendere pettini, spazzole e accessori vari. E l’elenco potrebbe continuare.
Se, quindi, da quasi dieci anni sono stati definitivamente archiviati i piani commerciali che hanno frenato lo sviluppo del comparto ed oggi si può aprire un esercizio di vendita senza particolari formalità, diventa difficile negare agli imprenditori, siano essi piccoli o medi, e quindi perché no a quelli agricoli, la possibilità di affiancare all’attività principale altre funzioni nel rispetto inscindibile delle norme urbanistiche e igienico sanitarie, senza porre loro inusitati vincoli.
Non è superfluo, sotto questo punto di vista ricordare che fin dall’estate scorsa sono state introdotte nell’ordinamento giuridico diverse disposizioni che hanno favorito o, meglio ancora, incentivato la libertà dell’iniziativa economica e il Governo, sulla base degli indirizzi comunitari si è impegnato a ridurre gli oneri a carico delle imprese.
Il disegno di legge 2272 bis bis è nato dallo stralcio del disegno di legge presentato alla Camera dal Governo, il 16 febbraio scorso. Il progetto di legge “Misure per il cittadino consumatore e per agevolare le attività produttive e commerciali, nonché interventi in settori di rilevanza nazionale” era nato contemporaneamente al decreto-legge 31 gennaio 2007, n.7 misure urgenti per la tutela dei consumatori, la promozione della concorrenza, lo sviluppo di attività economiche e la nascita di nuove imprese" che, pubblicato nella gazzetta ufficiale n. 26 dell’ 1 febbraio 2007, ne doveva rappresentare il naturale completamento coinvolgendo il Parlamento in un dibattito su materie e scelte in cui era, o si riteneva necessario costruire il più ampio consenso.

Il sistema autorizzatorio

Dall’inizio degli anni 90 con la positivizzazione del diritto amministrativo sono stati rivoluzionati i rapporti tra cittadino e pubblica amministrazione. Silenzio assenso e denuncia di inizio attività hanno sradicato il sistema autorizzatorio che aveva, da tempo, caratterizzato l’attività della PA in attuazione di un presunto interesse pubblico che limitava l’iniziativa economica sancita dall’articolo 41 della nostra carta costituzionale. Il sistema della comunicazione che legittima oggi l’apertura dell’esercizio di vicinato ma anche la vendita dei prodotti agricoli si inserisce nella evoluzione procedimentale per delle particolarità che sono state efficacemente analizzate dal Ministero dello sviluppo economico in una risoluzione del 21 dicembre 20061 che risulta oltremodo utile riproporre proprio per la completezza delle argomentazioni che sono state utilizzate per qualificare, con precisione, l’iter procedurale.

“Omissis ……………….. Nello specifico, si richiama, innanzitutto, l’articolo 4 del decreto, il quale al comma 1 stabilisce che “gli imprenditori agricoli, singoli o associai, iscritti nel registro delle imprese di cui all'art. 8 della legge 29 dicembre 1993, n. 580, possono vendere al dettaglio, in tutto il territorio della Repubblica, i prodotti provenienti in misura prevalente dalla rispettive aziende, osservate le disposizioni vigenti in materia di igiene e sanità”; al comma 7 sancisce che “Alla vendita diretta disciplinata dal presente decreto continuano a non applicasi le disposizioni di cui al decreto legislativo 31 marzo1998, n. 114“; al comma 8, prevede che “Qualora l’ammontare dei ricavi derivanti dalla vendita dei prodotti non provenienti dalle rispettive aziende nell’anno solare precedente sia superiore a lire 80 milioni per gli imprenditori invidividuali ovvero a lire 2 miliardi per la società2, si applicano le disposizioni del citato decreto legislativo 114 del 1998”.
Relativamente alle possibili modalità di vendita, l’art. 4, comma 2 del decreto stabilisce che le
aziende agricole che intendano effettuare la vendita diretta dei prodotti agricoli in forma itinerante
devono darne comunicazione al Comune del luogo ove ha sede l’azienda di produzione e possono
effettuarla decorsi trenta giorni dal ricevimento della comunicazione.
Il successivo art. 4, comma 3, stabilisce, inoltre, che la predetta comunicazione, “…oltre alle indicazioni delle generalità del richiedente, dell'iscrizione nel registro delle imprese e degli estremi di ubicazione dell'azienda, deve contenere la specificazione dei prodotti di cui s'intende praticare la vendita e delle modalità con cui si intende effettuarla, ivi compreso il commercio elettronico…”.
Pertanto, in sintesi, per effetto delle richiamate disposizioni l’attività di vendita dei produttori agricoli in forma itinerante su area pubblica è soggetta a comunicazione, integrata con le indicazioni, previste dal su citato comma 3, ed indirizzata al Comune ove ha sede l’azienda, la cui attività di vendita può essere avviata decorsi trenta giorni dal ricevimento della predetta comunicazione.
Con riferimento al citato art. 4, comma 2, c’è da rilevare che l’art. 2–quinquies della Legge 11 marzo 2006, n. 81 ha modificato il predetto comma 2, stabilendo che “… Per la vendita al dettaglio esercitata su superfici all'aperto nell'ambito dell'azienda agricola o di altre aree private di cui gli imprenditori agricoli abbiano la disponibilità non è richiesta la comunicazione di inizio attività”.
Nella fattispecie in cui non si tratti di vendita in forma itinerante, occorre fare riferimento al comma 4 dell’art. 4 del decreto che recita: “Qualora si intenda esercitare la vendita al dettaglio non in forma itinerante su aree pubbliche o in locali aperti al pubblico, la comunicazione è indirizzata al sindaco del comune in cui si intende esercitare la vendita. Per la vendita al dettaglio su aree pubbliche mediante l’utilizzo di un posteggio la comunicazione deve contenere la richiesta di assegnazione del posteggio medesimo, ai sensi dell’art. 28 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114”.
Il predetto comma 4, quindi, si limita a sancire che, in caso di vendita al dettaglio, non in forma itinerante su aree pubbliche (ossia nel caso di vendita su aree pubbliche mediante l’utilizzo di un posteggio), occorre indirizzare la comunicazione al Sindaco del comune in cui si intende esercitare la vendita e che la comunicazione deve contenere la richiesta di assegnazione del posteggio medesimo, ai sensi dell'art. 28 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114.
In conseguenza delle richiamate disposizioni, dall’entrata in vigore del decreto n. 228/2001, come modificato dalla citata legge n. 81 del 2006, i produttori agricoli, singoli od associati, iscritti nel registro delle imprese, possono vendere i prodotti provenienti in misura prevalente dalle rispettive aziende, con le seguenti modalità:

• su aree pubbliche, in forma itinerante;
• su aree pubbliche, mediante l’utilizzo di un posteggio;
• su aree private, ma in locali aperti al pubblico;
• su superfici all’aperto nell’ambito dell’azienda agricola o direttamente su aree private.

Con riferimento a quanto sopra, la scrivente ritiene che la comunicazione, ripetutamente richiamata nelle disposizioni del decreto n. 228, è un istituto diverso dalla dichiarazione di inizio di attività di cui alla legge n. 241 del 1990.
Al riguardo, si richiama l’attenzione sulla nuova formulazione del predetto art. 19, modificato dall’art. 1 (con le modalità e i termini di cui al successivo art. 2) della legge n. 80 del 2005, che sostituisce la denuncia di inizio con una “dichiarazione di inizio attività” ed in base alla quale:
“1. ogni atto di autorizzazione, licenza, concessione non costitutiva, permesso o nulla osta comunque denominato, comprese le domande per le iscrizioni in albi o ruoli richieste per l'esercizio di attività imprenditoriale, commerciale o artigianale il cui rilascio dipenda esclusivamente dall'accertamento dei requisiti e presupposti di legge o di atti amministrativi a contenuto generale e non sia previsto alcun limite o contingente complessivo o specifici strumenti di programmazione settoriale per il rilascio degli atti stessi, (…) è sostituito da una dichiarazione dell'interessato corredata, anche per mezzo di autocertificazioni, delle certificazioni e delle attestazioni normativamente richieste. L'amministrazione competente può richiedere informazioni o certificazioni relative a fatti, stati o qualità soltanto qualora non siano attestati in documenti già in possesso dell'amministrazione stessa o non siano direttamente acquisibili presso altre pubbliche amministrazioni.
2. L'attività oggetto della dichiarazione può essere iniziata decorsi trenta giorni dalla data di presentazione della dichiarazione all'amministrazione competente. Contestualmente all'inizio dell'attività, l'interessato ne dà comunicazione all'amministrazione competente”.
In caso di presentazione di dichiarazione di inizio di attività, quindi, ad avviso della scrivente, occorre obbligatoriamente il decorso dei 30 giorni, onde consentire agli organi preposti di operare le opportune verifiche.
Nelle richiamate disposizioni del decreto legislativo n. 228, invece, non vi è cenno al decorso del termine, nel caso di avvio di attività in locali aperti al pubblico.
……… Omissis”

L’aver chiarito, e la lettura delle disposizioni citate non può che portare a condividere questa interpretazione, che la comunicazione è immediatamente efficace contribuisce alla formazione di quella cultura della semplificazione che Governo e Parlamento hanno intrapreso sul percorso tracciato dall’OCSE.

I requisiti oggettivi dei locali

Una delle questioni che, trattando la disciplina delle attività economiche, più frequentemente emergono, è quella che riguarda i requisiti oggettivi dei locali. Le indicazioni che, spesse volte sono (in tutta buona fede) fornite agli operatori sono le più varie: si va dal certificato di prevenzione incendi, alla conformità della destinazione d’uso, all’altezza e dimensione minima de locali. Eppure, ormai, una cosa dovrebbe essere acquisita: non è possibile richiedere la dimostrazione del possesso dei requisiti oggettivi (né effettuare alcuna verifica) se la disciplina di riferimento non richiede alcunchè. L’articolo 4 del decreto 228 del 2001 che, alla data attuale, fornisce le indicazioni procedimentali, al comma 1 prevede che: Gli imprenditori agricoli, singoli o associati, iscritti nel registro delle imprese di cui all'art. 8 della legge 29 dicembre 1993, n. 580, possono vendere direttamente al dettaglio, in tutto il territorio della Repubblica, i prodotti provenienti in misura prevalente dalle rispettive aziende, osservate le disposizioni vigenti in materia di igiene e sanità.
Come appare evidente dalla lettura di questa disposizione, è soltanto il rispetto dei requisiti igienico-sanitari che deve essere assicurato dall’imprenditore che, tra l’altro, dopo l’entrata in vigore del nuovo pacchetto igiene CE è tenuto ad adempiere agli stessi oneri delle altre imprese produttrici di generi alimentari. Relativamente alla inesistenza di norme che impongano il rispetto di norme tecniche si è espresso anche il Tar Puglia in una delle poche sentenze emesse dopo l’entrata in vigore delle nuove disposizioni contenute nel decreto legislativo 228 del 2001.
L’articolato (del decreto 228 del 2001) - rileva il Tar Puglia, sezione di Bari, nella sentenza 5211 del l’11 novembre 2004 - (così come, peraltro, l'intero testo del decreto 228/01) non impone affatto il possesso di requisiti oggettivi (conformità dei locali alle norme regolamentari edilizie ed alle destinazioni d'uso di zona) per l'esercizio del relativo commercio. Il decreto, precisa il Tar Puglia, coerente con la sua ratio di favorire lo sviluppo del settore agricolo in tutte le sue potenzialità economico-sociali, oblitera ogni vincolo di natura urbanistica di guisa che i locali destinati all'attività di vendita scontano unicamente la verifica di idoneità igienico sanitaria.

Le sanzioni

A che tipo di sanzioni sono sottoposti i produttori che esercitano l’attività commerciale senza essere in possesso della prescritta autorizzazione o comunicazione è questione che sarebbe da approfondire, tenuto conto che né la legge 59 del 1963 né il decreto legislativo 228 del 2001 nulla dicono a proposito, ovvero nella relativa disciplina non esiste la previsione di alcuna sanzione. La questione, tuttavia, è stata presa in esame dalla Cassazione civile con sentenza n. 7240 del 7 agosto 1996, che si ritiene utile riprodurre integralmente, al fine della completa conoscenza delle argomentazioni sviluppate.

“1. La Cooperativa produttori del latte di xxxxx, con ricorso 3 aprile 1991 propose opposizione avverso l'ordinanza-ingiunzione dell'U.P.I.C.A. di Ascoli Piceno notificatole l'11 marzo 1991, con la quale le era stata comminata una sanzione amministrativa di Lit. 900.000 per violazione dell'art. 24 della L. 11 giugno 1971, n. 426 accertata in data 5 ottobre 1990, in relazione all'esercizio di vendita al pubblico al minuto senza la prescritta autorizzazione.
L'opponente deduceva di essere in possesso di autorizzazione sanitaria del 31 maggio 1990, di avere richiesto l'autorizzazione di vendita al minuto il 26 febbraio 1990 e di averla ottenuta il 15 ottobre 1990.
Deduceva di avere supposto un provvedimento di silenzio assenso ex art. 4 della legge 9 febbraio 1963, n. 59 e che, comunque, l'art. 45 della legge 11 giugno 1971, n. 426 esclude la necessità dell'autorizzazione per i titolari di imprese agricole, singoli o associati, i quali esercitino attività di alienazione dei prodotti agricoli nei limiti di cui all'art. 2135 cod. civ., alla legge n. 125 del 1959 e alla legge n. 59 del 1963.
L'U.P.I.C.A. si costituiva chiedendo il rigetto dell'opposizione. Il Pretore di Ascoli Piceno, in parziale accoglimento dell'opposizione, riduceva la sanzione a Lit. 500.000, compensando le spese.
La Cooperativa ha proposto ricorso per cassazione formulando tre motivi. L'U.P.I.C.A. di Ascoli Piceno resiste con controricorso.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo si deduce "violazione dell'art. 360, n. 5 c.p.c. per insufficiente e contraddittoria motivazione sul punto decisivo della norma da applicare".
Si lamenta in particolare che il pretore abbia apoditticamente affermato che l'autorizzazione del sindaco è sempre prescritta in base alle leggi n. 59 del 1967, n. 477 del 1964, n. 976 del 1965 e n. 426 del 1971, pur riconoscendo che tali norme non sono di facile interpretazione.
Con il secondo motivo si lamenta la violazione dell'art. 1 della legge n. 59 del 1963, dell'articolo unico della legge 14 giugno 1964, n. 477, dell'art. 2135 c.c., dell'art. 206 del D.P.R. n. 1124 del 1965 e dell'art. 45 della legge 11 giugno 1971, n. 426, che esentano i titolari di aziende agricole, che esercitino attività di alienazione dei prodotti agricoli, dall'obbligo di fornirsi dell'apposita autorizzazione comunale.
Con il terzo motivo si deduce la violazione degli artt. 1, 4 e 5 della legge n. 59 del 1963, in quanto secondo tali disposizioni trascorsi 15 giorni dalla richiesta della licenza senza rigetto della richiesta, doveva ritenersi intervenuto il silenzio-assenso.
2. Il primo motivo è inammissibile, giacché con esso si censura, in riferimento all'art. 360, n. 5 c.p.c. una asserita carenza di motivazione in diritto, mentre ai sensi dell'art. 360 n. 5 i vizi motivazioni deducibili con il ricorso per cassazione sono unicamente quelli riguardanti gli accertamenti di fatto compiuti dal giudice di merito, essendo, invece, censurabili i vizi motivazionali relativi alle norme di diritto applicate sotto il profilo della violazione o falsa applicazione di norme di legge, ex art. 360, n. 3 c.p.c.
Fondato è invece il secondo motivo di ricorso, con il quale si adducono violazioni di legge, sostanzialmente sotto il profilo che la ricorrente, essendo una Cooperativa di produttori del latte, ai sensi della legge 9 febbraio 1963, n. 59 e dell'art. 45 della legge 11 giugno 1971, n. 426, poteva vendere al minuto, in quanto associazione di produttori, i prodotti agricoli degli associati senza l'autorizzazione amministrativa prevista dagli artt. 24 e segg. della legge n. 426 del 1971.
In proposito va osservato che, a norma della legge 9 febbraio 1963, n. 59, i produttori agricoli, singoli o associati, hanno diritto ad ottenere, secondo le modalità previste da tale legge, l'autorizzazione a vendere, in tutto il territorio della Repubblica, i prodotti ottenuti nei propri fondi per coltura o allevamento, al di fuori delle regole stabilite in tema di autorizzazione al commercio al minuto della legge n. 426 del 1971 la quale, all'art. 45, espressamente dispone che essa non si applica ai "titolari d'imprese agricole, singole o associate, i quali esercitino attività di alienazione dei prodotti agricoli nei limiti di cui all'art. 2135 c.c., alla legge 25 marzo 1959, n. 124 ed alla legge 9 febbraio 1963, n. 59".
Erroneamente, pertanto, essendo l'opponente una cooperativa fra produttori del latte, la sentenza impugnata ha ritenuto che essa doveva munirsi, per la vendita dei prodotti dei suoi associati, della licenza di cui all'art. 24 della legge n. 426 del 1971, dovendo essa munirsi unicamente dell'autorizzazione prevista dalla legge n. 59 del 1963, con la conseguenza che non poteva esserle applicata la sanzione di cui all'art. 39 della legge n. 426 del 1971, prevista per la violazione dell'art. 24 di tale stessa legge e non anche per la mancanza dell'autorizzazione prescritta dalla legge n. 59 del 1963.
Ne deriva che il ricorso va accolto in relazione al secondo motivo, con assorbimento del terzo e, sussistendo le condizioni per pronunciare nel merito ex art. 384 c.p.c., in accoglimento dell'opposizione, l'ordinanza-ingiunzione opposta va annullata poiché nel caso di specie - per quanto sopra detto - non poteva irrogarsi la sanzione amministrativa prevista dall'art. 39 della legge n. 426 del 1971.
Sussistono giusti motivi per compensare le spese dell'intero giudizio.
P.Q.M.
La Corte di Cassazione dichiara inammissibile il primo motivo. Accoglie il secondo. Dichiara assorbito
il terzo. Decidendo nel merito annulla l'ordinanza-ingiunzione opposta. Dichiara compensate le spese
dell'intero giudizio.
Così deciso in Roma l'11 marzo 1996.”

Per la logica giuridica, alla violazione di una disposizione dovrebbe corrispondere la determinazione di una sanzione. Ma è il legislatore a deciderlo. E il legislatore nazionale con la legge 426 del 1971 e successivamente con il decreto legislativo 112 del 1998 ha disposto che la legge sul commercio si applica soltanto per quanto riguarda la procedura per la concessione dei posteggi per l’esercizio del commercio sulle aree pubbliche mentre espressamente, l’articolo 4, comma 2 del decreto 114 del 1998 dispone che la medesima legge non si applica:

“d) ai produttori agricoli, singoli o associati, i quali esercitino attività di vendita di prodotti agricoli nei limiti di cui all'articolo 2135 del codice civile, alla legge 25 marzo 1959, n. 125, e successive modificazioni, e alla legge 9 febbraio 1963, n. 59, e successive modificazioni.”

L’esclusione indicata alla lettera d) dall’ambito di applicazione del d.lgs 114/1998 e la specificazione di quali sono i relativi limiti merita un approfondimento. E’ ben noto, infatti, che l’analogia nel sistema sanzionatorio non è permessa e, di conseguenza, va approfondita una interpretazione da alcuni sostenuta che dovrebbe far scaturire l’ assioma: manca l’autorizzazione ex legge 59/1963 o 22/2001, l’attività va sanzionata in base sulla legge del commercio.
Questa tesi non può essere condivisa, per un insieme di motivi:
a) Innanzitutto va evidenziato che la legge sul commercio disciplina il commercio e non l’attività di vendita. Per gli operatori del settore questa distinzione non è da poco ed è ben chiara agli operatori del settore. Infatti, l’articolo 4 del decreto 114 del 1998 ne dà, puntualmente” la definizione in “per commercio al dettaglio, (si intende) l'attività' svolta da chiunque professionalmente acquista merci in nome e per conto proprio e le rivende, su aree private in sede fissa o mediante altre forme di distribuzione, direttamente al consumatore finale. Tale attività può assumere la forma di commercio interno, di importazione o di esportazione".
b) E’ pur vero che la normativa sul commercio disciplina ipotesi di vendita, (non rientranti nella definizione di commercio) ma esiste, al riguardo, una specifica disposizione. Non c’è in pratica, alcuna applicazione analogica.
Esiste, quindi, un modo “razionale” per interpretare quel riferimento, ovvero, quei limiti al codice civile e alla disciplina per la vendita dei prodotti agricoli contenuto nel decreto legislativo 114 del 1998? A giudizio di chi scrive esiste: e sono i limiti soggettivi e oggettivi che la disciplina stessa individua. In pratica, solo qualora i produttori violassero questi limiti che “qualificano” l’attività agricola rientrerebbero nella disciplina dell’attività commerciale e, di conseguenza il mancato possesso della autorizzazione prevista per tale attività potrebbe essere contestato.
In sostanza, tra i produttori e i commercianti non è presupposta l’appartenenza allo stesso genere che, invece, esiste tra i commercianti su aree private, quelli su aree pubbliche e quelli all’ingrosso. Non risulta, di conseguenza, possibile sanzionare l’esercizio dell’attività di vendita esercitata da un produttore sprovvisto dell’autorizzazione ai sensi dell’art. 4 del d.lgs 228/2001 con la medesima sanzione che punisce il commerciante che esercita l’attività non legittimato in base ai diversi procedimenti disciplinati dal decreto 114 del 1998.

20 luglio 2007

____________________________________
1. La risoluzione prot. n. 00111398 è pubblicata nel sito del Ministero all’indirizzo http://www.sviluppoeconomico.gov.it aree tematiche – commercio, sottosezione risposte a quesiti.
2. Questi importi limite di 80 milioni e di 2 miliardi sono stati successivamente aumentati e portati
rispettivamente a 160 mila euro per le imprese individuali e 4 milioni di euro per le società. L’incremento è
stato disposto dal comma 1064 dell'articolo 1 della legge. 27 dicembre 2006, n. 296.

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