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Le disposizioni di cui agli artt. 8-13 del r.d. 18 giugno 1931, n. 773 configurano un sistema nel quale si deve riconoscere all’Autorità di pubblica sicurezza una sfera di discrezionalità in ordine al diniego ed alla revoca delle autorizzazioni. In tal senso, la buona condotta richiesta dalla legge per le autorizzazioni disciplinate dal Tulps, comprende anche l’esistenza di atipiche circostanze che sono idonee a diventare causa ostativa al rilascio del provvedimento.
Il Consiglio di Stato, Sez. VI, con sentenza 1 aprile 2009 n. 2057 ha confermato la sentenza T.A.R. Liguria, Sez. II del 7 dicembre 2007, n. 2045. La questione, pur trattando di licenza per l’esercizio di un’attività tuttora di competenza dello Stato, merita commento in quanto consente di affrontare una questione che riveste interesse anche per gli enti locali in relazione al fatto che nessuna regione, a quanto consta, ha ancora provveduto ad emanare una propria disciplina per l’esercizio delle attività economiche attualmente ancora normate dal testo unico di pubblica sicurezza.
Il tempo passa, le norme si susseguono e la giurisprudenza, anche quella costituzionale, viene relegata negli anfratti della memoria. La questione connessa alla “Buona condotta” invece, espressamente prevista dal secondo comma dell’art. 11 del Tulps dovrebbe essere, di tanto in tanto, rispolverata partendo da quanto aveva a suo tempo affermato la fondamentale sentenza della Corte costituzionale 16 dicembre 1993 n. 440.
Secondo la Corte, nella memorabile sentenza di quindici anni fa, il profilo attinente alla prova della esistenza della buona condotta in capo all'interessato, rappresenta la base per vari giudizi di affidabilità devoluti all'autorità amministrativa e, come tale, non può essere giudicato in sè stesso lesivo di quei principi di ragionevolezza ai quali ogni ordinamento è tenuto ad ispirarsi. Tuttavia, precisava ancora la Corte, la latitudine di apprezzamento che a tale requisito è connessa esige, per non confliggere con inderogabili esigenze di determinatezza e perchè sia evitato il pericolo di sconfinare nell'arbitrio, una specificazione finalistica, riferita cioé alle particolari esigenze che l'accertamento deve soddisfare per le finalità correlate con il tipo di abilitazione o di autorizzazione richiesta.
Questo bisogno di evitare ogni genericità ha portato l'ordinamento successivo alla Costituzione, sottolinea il Giudice delle leggi, ora a forme di obsolescenza di concetti precedentemente ricorrenti nelle leggi ed ora, più radicalmente, alla eliminazione del requisito stesso della “buona condotta” da quei settori nei quali esso si poneva con caratteri apparsi incompatibili con l'accesso a posizioni che per criteri di eguaglianza e pari dignità debbono poter essere ottenute sulla base di condizioni chiare ed oggettivamente determinabili.
Del resto, secondo la Corte cost., la giurisprudenza amministrativa in tema di autorizzazioni di polizia, pur attenta a rimarcare in base a criteri di lodevole permissività relativamente all'onere della prova il requisito della buona condotta, ha continuato a riconoscere alla pubblica amministrazione un ampio potere valutativo in presenza di dati sfavorevoli quanto al comportamento dell'interessato; così venendo a gravare quest'ultimo dell'onere di rimuovere l'effetto preclusivo conseguente alla verifica compiuta dall'autorità amministrativa. E se è vero che resterebbe preclusa la possibilità che il potere discrezionale dell'amministrazione trasmodi in arbitrio non soltanto esaminando la progressiva evoluzione giurisprudenziale e dottrinale che ha svincolato la nozione di buona condotta dalle incrostazioni socio-politiche caratterizzanti il sistema precostituzionale, tentando di storicizzarne la portata, è anche vero che si è trattato, di frequente, di un'operazione interpretativa priva di risultati favorevoli in concreto, rimanendo demandato ai soli titolari della potestas decidendi il compito di determinare il contenuto dei presupposti e imponendosi così all'interessato una prova talora diabolica volta a contrastarne la forza cogente.
Che sia necessario, quindi, esaminare la stretta connessione tra le eventuali condanne intervenute e la tipologia di attività da esercitare, è stata, successivamente, affermata anche dal Consiglio di Stato, Sez. VI, nella sentenza n. 3813 del 22 giugno 2006. Con tale sentenza si era affermato che l’eventuale condanna per reati che non avevano attinenza con l’attività oggetto della richiesta non escludeva di per sé il requisito della buona condotta né imponeva il diniego dell’autorizzazione di polizia. Infatti, ha affermato il giudice di appello, il fatto che “ai sensi dell’art. 11, comma 2, del r.d. n. 773/1931, le autorizzazioni di polizia possono essere negate - oltre “a chi ha riportato condanna per delitti contro la personalità dello Stato o contro l'ordine pubblico, ovvero per delitti contro le persone commessi con violenza, o per furto, rapina, estorsione, sequestro di persona a scopo di rapina o di estorsione, o per violenza o resistenza all'autorità” – “a chi non può provare la sua buona condotta”, non è di per se motivo per precludere il rilascio di una autorizzazione di polizia. La norma, infatti, si precisa, deve essere letta congiuntamente alla sentenza della Corte costituzionale 16 dicembre 1993, n. 440, la quale l’ha dichiarata incostituzionale nella parte in cui pone a carico dell'interessato l'onere di provare la sua buona condotta.
Ritorna, quindi, prepotentemente l’assunto della Corte nella richiamata sentenza n. 440 del 1993, nella parte in cui motiva l’incostituzionalità della disposizione contenuta nell’art. 11 Tulps, non essendo consentito all'interessato contestare in via giurisdizionale nè i presupposti nè le valutazioni compiute dall'autorità amministrativa a sostegno di eventuale diniego, con conseguente incidenza al principio di imparzialità perchè le verifiche compiute dall'amministrazione non sempre possono restare ancorate a precisi criteri interpretativi e quindi con il rischio che esse rimangano affidate alle opinioni personali dei titolari della potestas decidendi.
Chiarito un tanto, va preso atto che negli unici due regolamenti di semplificazione emanati dal Governo prima della perdita della potestà regolamentare da parte del Governo stesso, è stata espressamente rimossa dall’istruttoria procedimentale la verifica connessa ai requisiti di cui al secondo comma dell’art. 11, Tulps, se non per motivi di pubblica sicurezza che legittimano l’intervento del Prefetto. Appare ovvio che questo precedente non può essere ignorato e, di conseguenza, attraverso il regolamento comunale di polizia amministrativa la procedura deve essere estesa a tutte le altre fattispecie. L’alternativa è, comunque, quella di dare atto all’interno dell’istruttoria procedimentale delle motivazioni che hanno indotto il responsabile a trascurare l’eventuale presenza di condanne desumibili dal certificato dal casellario. E’ utile ricordare, infatti, non solo che ogni provvedimento deve essere adeguatamente motivato nell’interesse del destinatario, ma deve essere motivato anche nell’interesse degli eventuali contro/interessati che dalla valutazione operata dal responsabile del procedimento possono dedurre la correttezza, o meno, dell’istruttoria eseguita e decidere, in un caso o nell’altro, di impugnare o meno il provvedimento finale.
Marilisa Bombi
3 maggio 2009
(Su gentile concessione di EDK Editore)